Pare che i cani discendano dai lupi, ma sono ormai passati millenni da quando vagavano liberi nelle foreste. Da tempo immemore diventati mansueti, sono gli animali da compagnia per antonomasia, tanto da meritarsi la definizione di “migliori amici dell’uomo”.
Mentre scrivo queste righe Bill sonnecchia sdraiato dietro la mia sedia, su una coperta, vicino al caminetto acceso. Al piano di sopra, Napoleone preferisce il divano, indifferente ai suoni provenienti dal televisore. Sono, ovviamente, i miei due cani. Spesso li osservo. Guardandoli fissi cerco di cogliere nei loro occhi qualche bagliore della fierezza e della furia dei loro avi, ma in quelle sfere acquose non traspare nulla del genere. Tranquilli e un po’ annoiati si gustano i piccoli piaceri della vita: un buon sonno, il tepore della casa, l’attesa della cena. Tuttavia, convivo con dei cani da abbastanza tempo per non lasciarmi ingannare: quello che vedo è solo uno dei molteplici aspetti della loro natura. Portati nei boschi sono in grado di correre a perdifiato per delle ore, d’inverno possono resistere a temperature polari semplicemente arrotolandosi su se stessi, di fronte al pericolo sfoderano una dentatura temibile e uno sguardo che non promette nulla di buono. L’antico retaggio del lupo cova ancora dentro di loro, come la fiamma nella brace, pronto a riemergere nel momento della necessità e del pericolo.
La letteratura avventurosa ha saputo ben raccontare questa doppia anima del cane. Jack London, in particolare, l’ha dipinta a parole in romanzi immortali come “Zanna Bianca” e “Il Richiamo della foresta”. C’è molto di Buck, protagonista di “Il richiamo della foresta”, in Blanca. Entrambi si ritrovano sbalzati in un mondo nuovo e ostile, entrambi affrontano distese gelide e selvagge, in grado di resistere ai rigori del tempo e alla furia della natura, pronti a combattere gli esseri umani ma anche a difenderli a rischio della propria vita, quando li identificano come amici piuttosto che avversari. Anche questo fa parte della loro natura.
Jiro Taniguchi conosce bene i cani. Ha vissuto con loro e ha raccontato il profondo legame che si crea tra uomo e animale in quel piccolo capolavoro che è “Allevare un cane”. Ma, a suo stesso dire, tra i tantissimi manga realizzati in autonomia (senza uno sceneggiatore, cioè) è proprio “Blanca” la sua opera preferita. Forse perché dalle sue pagine la doppia anima canina, domestica e selvaggia al contempo, emerge appieno. Basta osservare un primo piano di Blanca, gettare uno sguardo fugace ai suoi occhi, per comprenderne il pensiero. Dolore, riconoscenza, fierezza, rabbia, ferocia sono tasselli di un complesso puzzle caratteriale che poco ha da invidiare a quello umano. Animale domestico suo malgrado restituito alla vita selvaggia, Blanca è capace di inaudita violenza come di struggenti gesti d’affetto. Al di là del suo straordinario addestramento, è un cane, semplicemente e meravigliosamente un cane. Non sarebbe giusto chiedergli nulla di più, attribuirgli nulla di meno. Vi lascio quindi alla lettura delle sue avventure, introducendole con le parole di Jack London: “Quella non era una vita oziosa, baciata dal sole, senza niente da fare se non passare il tempo e annoiarsi. Qui non c’era pace o riposo, né un attimo di respiro. Tutto era confusione e azione, e in ogni momento si rischiava la vita. Era assolutamente necessario stare sempre all’erta, perché quei cani e quegli uomini non erano cani e uomini di città. Erano dei selvaggi che non conoscevano altra legge che quella del bastone e della zanna.”
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