martedì 3 luglio 2018

UN PUGILE MISTERIOSO


La boxe, o pugilato per dirla all’italiana, è conosciuta come la “nobile arte”, poiché dovrebbe esaltare alcune delle migliori caratteristiche dell’uomo, come la forza, il coraggio, l’intelligenza. È partendo da tale ottica che, nel 1867, J.S. Douglas, marchese di Queensberry, scrisse il codice della boxe scientifica, cercando di regolamentare tale disciplina, praticata fin dall’antichità, rendendola meno violenta e trasformandola in uno sport fatto, oltre che di forza bruta, di abilità, destrezza e velocità. A parte qualche differenza, le norme di Queensberry regolano ancora oggi gli incontri sul ring: obbligatorietà dei guantoni, knock out (un pugile perde se non si riprende entro dieci secondi dai colpi ricevuti), categorie di peso (gli incontri devono avvenire tra pugili all’incirca dello stesso peso).
A prescindere dalle intenzioni del nobile, nella realtà la boxe è stata spesso un concentrato di violenza e nel ventesimo secolo anche un mezzo di riscatto per le classi più povere, i cui rappresentanti più forti e determinati vedevano tale disciplina come lo strumento per una scalata sociale negatagli nella vita di tutti i giorni. Come nel caso di Cassius Marcellus Clay Jr., che poi cambiò il proprio nome in Muhammad Ali, più volte detentore del titolo di campione mondiale dei pesi massimi tra il 1964 e il 1978. Anche l’italiano Primo Carnera, campione mondiale nel 1933, trovò nella boxe una via d’uscita alla povera vita d’immigrato, finendo anche per diventare un simbolo del fascismo italiano, che lo sfruttò per pubblicizzare una presunta italica forza.
Proprio a fronte di questo loro duplice aspetto, tragico ed eroico allo stesso tempo, il cinema ha sempre avuto un rapporto speciale con gli atleti della boxe. Risulta persino inutile citare il pugile cinematografico per antonomasia interpretato da Sylvester Stallone, che nel 1976 ha dato il via al fortunato, seppur semplicistico, ciclo di Rocky.
Anche i fumetti hanno immortalano più volte la figura del pugile. Il personaggio più struggente è probabilmente il giapponese Joe Yabuki, noto in Italia come Rocky Joe, nato nel 1968 all’interno del manga dello scrittore Asao Takamori e del disegnatore Tetsuya Chiba. Il protagonista, Joe Yabuki è un teppistello di periferia la cui possibilità di riscatto si presenta ancora una volta sotto forma di guantoni da boxe. Questo fumetto in Italia è ancora visto come qualcosa per ragazzini, ma non in Giappone, ove personaggio e serie godono di una fama e un’apprezzamento straordinari, a tal punto che quando un personaggio moriva nella finzione narrativa gli veniva celebrato un funerale nella realtà. Anche per questo motivo per degli autori giapponesi cimentarsi con l’argomento boxe rappresenta un impegno gravoso. Lo hanno fatto lo scrittore Caribu Marley e il disegnatore Jiro Taniguchi nel volume Blue Fighter, pubblicato in Giappone negli anni Ottanta ma arrivato in Italia solo in questi ultimi mesi. Questa coppia di artisti cerca di distanziarsi da quanto già scritto e disegnato sull’argomento boxe costruendo la figura di un pugile misterioso e taciturno di cui, almeno inizialmente, non si conosce neanche il vero nome. Più picchiatore che stratega della nobile arte, Reggae (questo lo pseudonimo con cui è noto), perde più incontri di quanti ne vinca, ma a prescindere dal risultato mette in ogni match, in ogni colpo, una furia primordiale che lo porta all’attenzione del grande pubblico. La sua carriera sul ring, tuttavia, rimane scadente fino a quando non viene notato da un promoter americano che decide di trasportarlo dal Giappone alle Americhe per dargli fama internazionale e guadagnare dei bei soldi dalla sua ascesa.
È Jiro Taniguchi a portare sulla carta la vicenda. Disegnatore giapponese da diversi anni apprezzato anche in Europa, in questa sede Taniguchi sfoggia un tratto abbastanza diverso da quello più pulito e solare degli ultimi anni della sua carriera, quando preferisce optare per storie maggiormente quotidiane e intimiste. Il Taniguchi di Blue Fighter è quello dei volumi noir, dalle tavole più cupe e dal disegno maggiormente realistico e sanguigno, che nelle vignette dedicate agli incontri di boxe riesce a far emergere la violenza da ogni pugno scagliato, da ogni sguardo impietoso. I suoi boxer si muovono veloci sul ring, le loro corporature sono possenti, i loro muscoli marcati da un fitto tratteggio. L’impostazione delle tavole è perfetta, il senso del dinamismo ineccepibile, e ogni volta che un pugno parte sembra quasi di sentirlo sibilare nell’aria, per schiantarsi sul volto del malcapitato avversario.
Se nulla vi è da contestare sul piano grafico, Blue Fighter desta qualche perplessità su quello narrativo. Caribu Marley talvolta utilizza didascalie ridondanti, che poco si sposano con una storia dal fin troppo crudo realismo. Soprattutto, chiarisce poco del personaggio, il cui alone misterioso può essere affascinante all’inizio, ma diventa frustrante col passare delle tavole, quando si aggiungono nuovi tasselli a un puzzle che tuttavia sembra non volersi mai completare. Insomma, lo sceneggiatore lascia aperte più porte di quante ne chiuda, cosa non inusuale per il fumetto giapponese che tradizionalmente ha un concetto di fine diverso da quello occidentale. La conclusione del volume, dopo aver voltato l’ultima pagina, lascia quindi nel lettore un leggero senso di disorientamento per non aver compreso del tutto la figura del protagonista, pur avendone apprezzato il percorso narrativo. In poche parole, un bel graphic novel che avrebbe potuto essere un ottimo graphic novel se avesse beneficiato di qualche attenzione in più

Caribu Marley (testi) e Jiro Taniguci (disegni)
BLUE FIGHTER
J-Pop - Edizioni BD
pp. 290, euro 15,00


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